Primi giorni del 1990. L’ordine era chiaro: raggiungi Brindisi e imbarca su Nave San Marco. Destinazione la Romania con un grosso carico di aiuti per quella popolazione appena uscita dalla crisi innescata dal crollo del regime di Ceausescu. Un colpo di stato mascherato da rivoluzione, con scintilla iniziale a Temesvar, in ungherese,talchè era l’origine, Timisoara, Romania occidentale.
L’abitudine era consolidata: obbedire senza discutere, senza la benché minima obiezione. Questione di  addestramento, sfociato in stile. Così raggiunto Brindisi, poco dopo ero a bordo, provando quel sottile piacere del distacco dalla terra e da tutte le sue complicazioni.  Nel momento in cui ottenevo la riposta positiva alla domanda: “Chiedo il permesso di salire a bordo”, dopo aver superato l’ultimo gradino del barcarizzo, automaticamente si verificava il taglio, netto con quanto si accalcava sul molo, manifestando irritazione per essere stato scaricato così, seccamente, senza alcun riguardo, fatti salvi i vivissimi sentimenti intimi, verso i miei cari.
Il prevaleva e l’inquadramento trasformava l’essere, proiettandolo verso l’azione, verso l’obiettivo della missione: nell’occasione il porto di Costanza, sul Mar Nero. In precedenza Golfo Persico, in  seguito Somalia.
Condizioni meteo favorevolissime, mare calmo, navigazione eccellente,  conversazioni molto gradevoli in quadrato ufficiali e in plancia, coordinamento produttivo con il comandante, con il , con il commissario e trasmissione, dalla sala radio dell’unità, dei servizi alla scadenza richiesta dal GR/RAI, quattro cinque volte nell’arco delle 24 ore, con ultimo servizio trasmesso per il GR delle 24.00 che da Roma si irradiava in mezza Europa, in Canada e, dopo le opportune determinazioni, in Australia.
 E così per svariati giorni mentre il San Marco (e il suo prezioso carico di aiuti umanitari, alimentari e sanitari)  aveva la prora sull’Egeo passando non lontano da Capo Matapan, nome tragico, cupo, raggelante: le acque di quella zona di mare sono il doloroso cimitero di cinque navi e di oltre 2.300 Marinai Italiani caduti sotto il fuoco micidiale delle corazzate e dei caccciatorpediniere della Royal Navy, la notte sul 29 marzo 1941: incrociatori pesanti, Pola Fiume, Zara, cacciatorpediniere Carducci e Alfieri. Duemilatrecento i Caduti. Una vicenda oscura, dove ancora alitano misteri, tradimenti, menzogne, manipolazioni. Argomenti messi da parte nei servizi trasmessi per il Giornale Radio.
Un paio di giorni più tardi il Comandante del San Marco, mi convocò nel suo alloggio: mi chiese di parlare all’equipaggio nel periodo in cui la nave si avvicinava allo stretto dei Dardanelli,  dove sulla penisola di Gallipoli, si potevano  scorgere, molto meglio con i potenti binocoli di cui la nave era dotata, le bianche lapidi del cimitero Britannico, testimonianza dei durissimi combattimenti fra turchi e truppe australiane e neozelandesi (il Corpo di spedizione ANZAC) appunto lungo la penisola di Gallipoli, nel 1915: una infelice, sanguinosa campagna voluta da Winston Churchill, all’epoca primo Lord dell’Ammiragliato, convinto (illusione)che attaccando dai Dardanelli, si sarebbe costretta la Turchia alla resa e gli austriaci ad abbandonare i Balcani.
Ma vi era altro e di maggior interesse per l’Equipaggio di Nave San Marco. Il Comandante, anche se apparentemente disinteressato del <marinaio> aggregato al suo Stato Maggiore, con  il <placet> e la <benedizione> dell’Alto Comando della Marina, del Ministero della Difesa e personalmente del Capo di Stato Maggiore Generale, si era informato un’idea, o aveva ricevuto una sintetica nota relativa la profilo professionale del <marinaio>, nel quale prevaleva l’interesse  critico, specifico, in merito alla storia della seconda guerra mondiale, segnatamente, per quanto svolto dalla Regia Marina. Tra questo vi era e con grande rilievo l’impresa compiuta da Luigi Ferraro, incursore straordinario e autore di alcune tra le più spettacolari missioni che Uomo abbia mai compiuto in tempo di guerra: l’attacco subacqueo solitario a navi nemiche: lunghe pericolose nuotate da terra e sino alle navi da carico nemiche, applicazione di cariche esplosive dotate di speciali apparati che determinavano l’esplosione dell’ordigno, applicato dal Ferraro alle alette di rollio, dopo un certo numero di miglia percorse a una determinata velocità dal mercantile nemico, con il conseguente affondamento del mercantile e del suo prezioso carico, di metalli strategici(cromo). Perdita del mercantile addebitata, presumibilmente, ad una mina, o a un sommergibile, non certo all’impiegato del Consolato che, oltre tutto, ed era di comune conoscenza nell’ambiente diplomatico, di quella zona neutrale, non sapeva nuotare, manifestando una insopprimibile avversione per l’acqua. Il <marinaio> aderì immediatamente all’ordine del Comandante e al momento opportuno raccontò all’equipaggio le vicende che avevano visto Gallipoli, gli Stretti e l’area di quel tratto di mare  assurgere a protagonisti di vicende storiche di grande rilievo. In seguito il <marinaio> ebbe un riconoscimento confidenziale. Il comandante di Nave San Marco gli rivelò che la sera i marinai liberi dal servizio riascoltavano il racconto che avevano registrato.

 

Quando Nave San Marco attraccò a una delle banchine di Costanza, era tarda sera. Un vento gelido di traverso, tagliava l’orizzonte su un vuoto buio e su un porto dove la ruggine e la ferraglia abbandonata dominavano una scena gelida non tanto per il clima, quanto per il niente che sovrastava il cupo e misero orizzonte. Solo qualche guardia addobbata alla meno peggio ( in genere senza guanti, impugnando  a fatica il kalashnikov di chiara matrice sovietica e alcune guardie, in genere donne, egualmente armate, site su piattaforme di torri di legno) erano protagonisti della scena, dominando dall’alto l’area dove la nave italiana era attraccata.
Quando lo scarico delle merci ebbe inizio non vi fu un formicolare di marittimi con carrelli e altro utile, ma solo marinai della nave a provvedere alla  bisogna. A bordo l’indomani, a presentarsi al Comandante, sia pure dopo aver presentato le dovute credenziali, giunsero due ufficiali superiori ( grado equivalente a quello italiano,capitani di corvetta) del locale Comando Marina. Uno di essi, F.S., si qualificò quale psicologo. Si ebbe così la paziente operazione di scarico, che si protrasse per alcuni giorni avendo le autorità locali interesse  e curiosità nell’ accertare di cosa si trattasse e dove sistemare i vari pallets. Il tempo, dopo la prima inevitabile diffidenza, consentì di migliorare i rapporti con i due ufficiali di collegamento. Quando al mattino arrivavano la Nave offriva loro caffè, ma poco dopo lo psicologo si fece coraggio, aiutato anche dalle chiacchiere dei colleghi e del <marinaio>, e chiese un panino e una birra. E divenne così un rituale.
Quando il grande hangar del San Marco fu quasi vuoto, il Nostromo che presiedeva alle manovre di scarico, si rese conto che un pallets di pasta era semidanneggiato. Impossibile ripararlo e poterlo utilizzare senza rischiare di danneggiare ulteriormente il carico e di spargere ovunque i maccheroni e gli spaghetti.  Allora chiamò un paio di sottufficiali e dispose di donare i pacchi di pasta alle guardie che si erano affollate nei giorni precedenti, letteralmente conquistati, se  non addirittura ipnotizzati da tanto ben di dio. Ognuno ricevette due/tre pacchi di pasta.  Una delle guardie, una donna, sistemata in cima a una delle torri ed esposta alle raffiche taglienti del vento che correva urlando sulle livide  acque del mar Nero, spinto dalla bufera che imperversava sui Carpazi, batté sicuramente qualche primato mondiale di velocità discendendo come un lampo e correndo verso il boccaporto dove avveniva la distribuzione. Purtroppo giunse, trafelata, quando ormai tutta la pasta era  stata distribuita. Un attimo di smarrimento  e poi un pianto dirotto, disperato. Il Nostromo, vecchio lupo di mare, sul principio sorrise con amarezza, poi chiamò a sé un marinaio e gli sussurrò qualcosa. Quello scattò come una lepre e poco dopo riapparve a fianco del Nostromo con due pacchi di pasta che quest’ultimo diede alla donna soldato che tra le lacrime ringraziò vigorosamente e si allontanò stringendo al petto il kalashnikov e i pacchi di pasta. Poco mancò che abbracciasse il Nostromo.
Intanto uno dei sottufficiali vedendo che una delle guardie aveva le mani violacee per il freddo si sfilò i guanti e glieli offrì. Gesti che solo gli Italiani sanno fare e fanno e che il <marinaio> ha visto fare nella valle di Zakho in Kurdistan, in Somalia,  nelle enclave del Kosovo, nell’interno  squallido e deprimente dell’ Albania.
Venne il momento di scendere a terra e di avvicinarsi alla città: Un percorso obbligato che sfiorava una zona isolata e  completamente recintata (“qui, un tempo c’era il casinò”,  disse l’ufficiale psicologo che fungeva da guida) e poco oltre, dopo una curva sulla sinistra, fummo di fronte ad una chiesa: Entrammo: donne che pregavano mormorando una cantilena incomprensibile, ma  suggestiva. Una serie di candele accese decorava un tratto del pavimento di terra secca. Così, ci dissero, si ricordano i morti della recente rivoluzione: poi l’ufficiale psicologo aggiunse avvicinando la bocca al mio orecchio sinistro: il pope è un uomo delle Securitate, la polizia segreta di Ceausescu.Si rimase a lungo a osservare e riflettere. Quella chiesa, piccola e modesta, quelle candele, i riflessi sui volti delle donne in preghiera avvolte in scialli logori, ma ricchissime di dignità e di devozione, sono rimaste impresse nella memoria del <marinaio> come su una pellicola cinematografica. Peccato non avere una telecamera. Errori…
 

Proseguimmo di qualche decina di metri e vedemmo un bimbo che piangeva davanti a una vetrina poco illuminata, mentre la madre lo invitava seccamente a muoversi. Nella vetrina dominava una biciclettina. Intanto dietro la scena si avvicinavano tre Marinai di Nave San Marco, che coraggiosamente avevano scelto la franchigia, sfidando i 17 gradi sottozero di quella serata. Poco dopo il bambino, aveva smesso di piangere, sorrideva  e teneva orgogliosamente le manine strette sul manubrio della biciclettina. Fu la  notizia di apertura del servizio che trasmisi per il GR delle ore 24.00.I tre marinai proseguivano nella notte, imbacuccati,anche loro sorridenti.
Quando giungemmo in quello che si poteva classificare il centro della città di Costanza, scorgemmo sulla nostra sinistra delle rovine antiche: resti di un foro romano, disse l’ufficiale psicologo, poi, soggiunse con un lampo di orgoglio,  “questa è  Romania…” “Nessuno straniero- disse poi- è mai entrato in casa mia. Vorreste voi venire?”. L’invito era rivolto al <marinaio> e all’ufficiale che lo accompagnava,un ufficiale superiore con l’incarico di addetto stampa (prestava servizio, al Ministero, all’Ufficio Documentazione e Propaganda. In parole povere all’ufficio stampa e relazioni esterne).
Accettammo e l’ufficiale ci indirizzò in una strada laterale dopo averci spiegato che nell’edificio con le finestre illuminate che era sulla nostra destra vi erano ricoverati i feriti degli scontri a fuoco seguiti alla caduta di Ceausescu, fucilato unitamente alla moglie, la vigilia di Natale, quando il <marinaio> e un collega giornalista erano a Bucuresti, impegnati in una precedente missione. La notizia fu diffusa, da quella emittente, con molta  enfasi, precisamente  da una emittente ungherese che si captava chiaramente a Bucarest; si vedeva, e molto bene nella capitale romena:  straordinariamente il commento risultò essere prima in lingua locale e subito dopo in inglese e in francese,sicché i due giornalisti italiani, soli   stranieri presenti in quel  locale, furono informati di quanto era accaduto poche ore prima. Ricordavano che la notizia della fucilazione di Ceausescu fu accolta con applausi da quanti erano davanti al televisore. In ogni caso la prudenza suggeriva    cautela. In seguito,  mentre da Arad puntavano su Timishoara a bor-
do di una potente BMW con targa austriaca , per ben tre volte furono fermati da posti di blocco di insorti che li interrogarono dopo aver infilato le canne dei mitra dentro la vettura dai finestrini abbassati, mentre quello che doveva essere il capo del manipolo osservava con diffidenza i passaporti. Difficilmente avrebbero dimenticato che quando avevano superato il confine tra Austria e Ungheria, ancora sotto il regime sovietico,   lasciata  alle spalle una parte della “cortina di ferro” ricamata con i cavi dell’alta tensione, il militare con  Kalashnikov e colbacco decorato con croce rossa sovietica, dopo aver visto i passaporti e le ricevute del dovuto in valuta pregiata per il visto di accesso all’Ungheria, salutò i due giornalisti  con queste precise indimenticabili parole: Italiani?....mafiosi….”.
Giunti ad un portone aperto, salimmo alcuni piani di scale buie e tristi. Un’occhiata quasi di rapina sui nomi
scritti sulle targhette poste sopra i campanelli: indicavano dottori, ingegneri, medici, funzionari di partito Appartamenti che da noi  neppure nella peggiore delle periferie si possono ammirare .
Giunti al piano giusto, l’ufficiale psicologo aprì una porta e ci invitò a seguirlo. Entrammo: un piccolo, angusto appartamento: un salottino,  un  corridoio e lungo questo due porte, probabilmente le camere da letto e i servizi. Così si ipotizzò. Il salottino aveva una finestra sul davanti, a sinistra un mobile con sopra un piccolo televisore, un divanetto e due poltrone. Con la caratteristica di non avere le gambe o zampe, sicché ci si sedeva alla turca con il sedile che poggiava sul pavimento. Ovviamente con il cappotto e il berretto di Nave San Marco ben calzato in testa (berretto che tuttora fa parte dell’abbigliamento del <marinaio>,  pur se a casa, come si dice in Marina quando si è in congedo, per raggiunti limiti di età). In quella casa vi erano sette gradi sotto zero e senza riscaldamento.
L’ufficiale psicologo raccontò che la televisione apriva i programmi nella prima serata e attorno alle ore 20 e alle 22 li concludeva. Manifestò delusione perché rarissimamente trasmettevano cartoni animati.  Raccontò due episodi: la moglie era un medico, la figlia si chiamava Elisabetta. Ci invitò ad avvicinarci alla finestra da dove si vedeva in basso un vicolo molto stretto e a un certo punto una cancello: “Ecco, disse, lì dentro una volta al mese distribuiscono la carne. Bisogna che sia presente tutta la famiglia; allora noi, conoscendo la data della distribuzione, ci organizziamo, copriamo bene Elisabetta e prima delle tre di notte scendiamo e ci mettiamo in fila. Il cancello lo aprono alle quattro…
L’ufficiale romeno offrì un liquore. Una specie di slivovitz, parve, (il marinaio è astemio) e andò giù come acqua fresca. Dopo il brindisi, aggiunse che alcune volte si riunivano con degli amici, fidati lasciò intendere. Come trascorrevano le serate? Facendo ipotesi su come sarebbe finito Ceausescu.
 

***


Nei giorni durante i quali rimanemmo a Costanza, apprendemmo molte notizie. Pareva quasi che durante i colloqui sovente improvvisati con gli interlocutori romeni vi fosse una precisa intenzione di comunicarci determinate informazioni. Ad esempio dopo averci fatto visitare alcune case di nuova costruzione, ma incomplete di infissi, pavimenti e impianti igienici,  ci fu precisato che quelle abitazioni sarebbero state subito assegnate a famiglie che avrebbero dovuto viverci in quelle condizioni. Inoltre i muratori aggiunsero che Ceausescu per lungo tempo aveva venduto all’estero, a  paesi del terzo mondo, materiali edili per riscuotere valuta pregiata che non si sapeva dove fosse finita. Altre visite e relative informazioni a strutture sanitarie: ad esempio, i chirurghi al primo mattino facevano l’inventario dei guanti chirurgici disponibili per stabilire quali e quanti interventi avrebbero potuto fare. Usavano ancora siringhe di vetro.  Presenti a un intervento: un infermiere esce con un secchio e getta il sangue contenuto nel bugliolo, in un fossato. Uno dei chirurghi intanto fumava in sala operatoria. Inoltre, visto in diretta: feriti della Securitate in terapia intensiva: i tubicini che erano applicati ai corpi dei feriti portavano i liquidi spurgati a delle provette che altro non erano se non bottigliette vuote di bibite.
L‘esperienza romena ebbe un seguito a dir poco curioso. Rientrato in Patria, il <marinaio> riprese la normale attività di servizio quale inviato speciale del GR/RAI. Passò del tempo tra servizi su clandestini provenienti dall’Albania, pattugliamenti notturni in Adriatico e nel Canale d’Otranto, fino alle acque territoriali albanesi e greche, a bordo di motovedette della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza, per intercettare con il radar i gommoni stracarichi di clandestini e segnalarli via radio alle forze dell’ordine che pattugliavano le coste nei punti più facilmente adatti agli sbarchi; viaggi all’estero per inchieste su falsari, traffico di valuta , traffico di organi umani, criminalità organizzata e  altro che non è il caso di specificare… Poi, settimane dopo, accadde un fatto strano. Prima di un colloquio con l’Ammiraglio comandante il settore pubblica informazione, per avere l’autorizzazione a un determinato contatto,  il <marinaio> si avventurò all’interno del Ministero e sulla base di una indicazione bussò cortesemente ad una porta e avuto il permesso l’aprì entrando: si fermò quasi subito, sorpreso e stupito; era una camera da letto ed  entro il letto, ma vivace e sorridente, vi era l’ufficiale psicologo F.S. che lo accolse con un “che fortuna incontrarti”. Per l’ufficiale non era una sorpresa vedere il <marinaio> in quell’ambiente, lo era per il <marinaio>. Che ci faceva F.S. in casa della Marina Militare Italiana? A  che titolo era lì un ufficiale superiore della marina romena?  Apprese così che l’amico romeno era appena sbarcato da una unità, tra le più recenti, della marina italiana, reduce da una esercitazione NATO nei mari del Nord Europa. La situazione era imbarazzante, ma nel contempo estremamente interessante;  ne pose fine l’improvviso ingresso  dell’ammiraglio che con noncuranza tolse dall’impasse il <marinaio>, quasi imponendogli  con la sua sola presenza di smetterla di riflettere e di porsi domande, congelandone la curiosità professionale.
Mentre percorrevano lentamente gli ampi, lunghi,monotoni, severi corridoi ministeriali per raggiungere l’ufficio dell’Ammiraglio comandante, questi gentilmente mormorò: “ Hai visto qualcuno?”
Il <marinaio> rispose con un flebile, ma eloquente, “Signorno”.
“Puoi andare”, concluse l’Ammiraglio.