GENERALI IN CONTROLUCE - parte 4

CONCLUSIONE

La breve indagine si conclude con le notazioni che seguono. Ciò non significa che l’argomento si possa considerare esaurito. Tutt’altro!
Organizzare, strutturare una Nazione alla guerra, significava predisporre un piano operativo che comprendeva la mobilitazione delle industrie, l’acquisizione tempestiva delle materie prime strategiche necessarie o la creazione di intese al fine di garantirsi il flusso di dette materie prime; inoltre, assicurarsi la cooperazione di tutte le componenti economiche e sociali, in caso contrario mancherebbe la compattezza sociale e la disponibilità ad affrontare le rinunce e le difficoltà psicologiche e morali connesse con un conflitto che comporta morti, feriti, invalidi e distruzioni.
Bisogna anche determinare quale sia l’obiettivo strategico del conflitto: ampliamento di territorio, rivendicazioni, eliminazione di un avversario pericoloso, un intervento imposto da un’alleanza?
Problema fondamentale la disponibilità di forze armate affidabili, addestrate, organizzate e armate come necessario e, in particolare, guidate adeguatamente. Purtroppo le forze armate del Regno d’Italia nel giugno 1940, al momento di entrare nel conflitto, avevano gravi carenze con riferimento ai velivoli da caccia, nell’armamento di caduta per i bombardieri in quota, gravi deficiente pesavano sulla ricognizione aerea a largo raggio, mancavano totalmente aerosiluranti, adeguate scorte di siluri aviolanciabili, carri armati con armamento opportuno e autoblindo. Infine, pur disponendone, i militari sottovalutarono il radiotelemetro, cioè quello che oggi si definisce Radar.
Nelle pagine precedenti si è tentato di fornire delle risposte documentate a fronte dei molti interrogativi, sopra evidenziati, che dovrebbero essere integrati da considerazioni circa la mancanza di una precisa volontà di battersi e della determinazione protesa a voler vincere. Due requisiti che non brillarono nel cielo della guerra condotta dall’Italia. Con questo non si intende qui sostenere che sarebbe stato possibile vincere. Si può e si deve affermare con cognizione di causa che sarebbe stato possibile condurre le operazioni in modo tale da porsi nella condizione di indurre il nemico a trattare. Un impiego più deciso delle forze, una condotta più ortodossa delle operazioni, la concentrazione dei mezzi e lo sfruttamento delle risorse che pure erano disponibili, ma che vennero scioccamente ignorate, una chiarezza strategica più limpida e meno rinunciataria, una maggiore onestà intellettuale e una autentica lealtà, sarebbero state sufficienti per sfruttare l’iniziale debolezza del nemico, togliendogli completamente l’iniziativa, costringendolo a battersi nel terreno scelto dal comando italiano, che invece, fece tutto il contrario, subendo l’iniziativa avversaria, mostrandosi titubante e debole, usando il criterio del minimo sforzo e ponendosi sulla difensiva passiva e attendista.
Non fu dato credito a quanti si batterono per far mutare gli orientamenti bolsi e superati dell’Alto Comando, ancorato a una dottrina ormai superata e sostituita, nel combattimento terrestre, dall’impiego coordinato di mezzi corazzati, aviazione e con artiglierie semoventi e lontano dalle trincee, dai reticolati, dagli assalti alla baionetta. Purtroppo l’alto comando non avvertì le ventate di nuovo che si erano concretizzate negli arsenali dei potenziali avversari e rimase ancorato a concetti arcaici condizionando in tal modo l’addestramento delle truppe e la preparazione degli ufficiali, privi non di valore e di coraggio, ma di criteri idonei a fronteggiare le nuove metodologie operative soprattutto dei Britannici, che - ad esempio - avevano fatto tesoro di alcune delle esperienze maturate durante la Grande Guerra: impiego dei carri armati- che in effetti loro avevano inventato- con il supporto di una forte e agguerrita spregiudicatezza e persino arroganza, la motorizzazione e la meccanizzazione della Fanteria, soluzioni suggerite, confortate, potenziate dalla presunta certezza di essere persone di livello superiore, ma sostenute da un governo e da un apparato industriale che aveva loro fornito aerei velocissimi e fortemente armati, carri armati poderosi (sino a 26 tonnellate) e una artiglierie mobile estremamente efficace.
Non come in Italia, dove allora molte, troppe industrie portanti, ricorsero dapprima all’esaltazione della scelta di entrare in guerra e,poco appresso, dopo i primi rovesci (vedi sconfitta di Graziani nel dicembre-febbraio 1940/1941 in Africa Settentrionale, pronti a una duplice scelta: la prima riguardante il sabotaggio della produzione (ritardi, utilizzo scorretto delle materie prime strategiche, fornitura di materiali fondamentali con ritardo e con difetti esiziali e, secondo aspetto, contatti tramite canali situati nella Confederazione elvetica, con rappresentanti del nemico per concordare intese finalizzate al sabotaggio dello sforzo bellico nazionale contro un patto scellerato di salvaguardia degli impianti dalle incursioni aeree mirate e quindi la garanzia di un trattamento privilegiato a fine conflitto. Pagina terrificante del’abominevole tradimento.
Si vuol concludere queste notazioni ricordando quanto sarebbe stato possibile ottenere se vi fosse stata la ferma volontà di battersi per la vittoria, fornendo ai combattenti i mezzi disponibili, adeguati alla bisogna e tempestivamente realizzati, a seguito di una analisi adeguata del potenziale avversario, risultato di indagini informative costanti, idonee a concretizzare un mutamento dottrinario nei vertici della Difesa, trasformando pigrizia e mediocrità in qualcosa di più aderente alle esigenze, prendendo atto di quanto era stato fatto nella seconda metà degli anni 930 in Germania, in Unione Sovietica, in Francia e soprattutto nel Regno Unito, considerato da molti anni, il vero nemico.
Che in Italia esistessero idee, progetti, prototipi per mezzi ,armi (aerei, artiglierie, etc.) per nulla inferiori a quelle del potenziale nemico, non si sono dubbi. Mancò la capacità di agire, proprio nel significato giuridico della definizione.
Concludiamo con le seguenti notazioni. Un dovuto riconoscimento a quanti ebbero l’ispirazione di volere concretizzare qualcosa di valido, anche se nelle paludi mefitiche della burocrazia, della miopia cronica di capi del tutto incapaci, inetti e vili.
Il semovente da 75/18 rappresenta il miglior mezzo corazzato realizzato dall’industria italiana agli inizi della seconda guerra mondiale, ma- al tempo stesso- rappresenta una ulteriore clamorosa dimostrazione dell’incompetenza, dell’ottusità, dell’ignoranza più gretta dei responsabili del settore,
Il mezzo in effetti fu un .
PREISTORIA: a scanso di equivoci e di interpretazioni forzate, per non dire faziose, in realtà l’Italia fu la prima a motorizzare l’artiglieria, anche se poi l’idea rimase al palo e non ne seguìrono sviluppi e dottrina d’impiego, come invece accadde altrove (particolarmente in particolare Regno Unito e Germania).
Durante la grande guerra l’Esercito italiano impiegò gli auto/ cannoni da 102 mm: cannoni  navali montati sugli chassis di autocarri pesanti. Una soluzione efficace che tuttavia, anche se fornì notevoli risultati nell’impiego operativo, rimase fine a se stessa. Infatti, nell’immediato primo dopoguerra, gli auto/cannoni furono smobilitati e la soluzione della motorizzazione dell’artiglieria completamente obliata.
Soltanto nel 1938 si ebbe un timido risveglio, determinato dall’inconsistenza dell’armamento dei cosiddetti carri veloce L.35 armati con due misere mitragliatrici a fronte dei carri di produzione sovietica e armati da cannone di 40 mm. in torretta girevole. Quando poi i Tedeschi mostrarono la potenza delle loro divisioni Panzer in Polonia, l’inconsistenza dei (presunti) corazzati e la debolezza dei contro/carri da 47/32 impose agli statici interdetti, sbigottiti alti comandi- anche e soprattutto con la spinta di gradi inferiori, ma ben più svegli – di passare al calibro 75 mm.

Era il penoso, tardivo, affannoso tentativo di colmare il pesante profondo divario nei confronti dell’avversario. Ammettendo implicitamente di avere gettato al vento almeno quindici .Alla luce di quanto si è tentato di documentare – e se necessario si potrebbe fare molto di più - .Il solo immaginare quanto sarebbe stato possibile predisporre, preparare, organizzare nei cinque anni dal 1934 al 1939, è fonte di brividi.
Gli specialisti del settore, rilevano che perdurò la che attribuiva all’artiglieria corazzata l’esclusivo il ruolo di; pertanto gli ordinativi dei semoventi da 757/18, su scafo del carro M, furono estremamente .
Considerati il tempo perduto, l’inettitudine e l’incompetenza, dominanti e imperversanti ai vertici, l’incremento della produzione di semoventi divenne significativa solo agli inizi del 1943, “quando ormai le sorti del conflitto erano segnate” (citazioni virgolettate da un testo di Nicola Pignato).
L’involucro che racchiudeva l’Esercito era refrattario, ostile, apertamente nemico accanito di ogni novità, avverso ad ogni cambiamento, a tutto ciò che poteva o doveva riesaminare ruoli, incarichi, scelte, direttive… soprattutto le incrostazioni purulente della mentalità.
Assolutamente prioritaria la conservazione dell’esistente,la protezione feroce , tenace, del marchio di fabbrica: PIEMONTESE.
Gli eretici, i contestatori, coloro che facevano lavorare il proprio cervello, studiando, documentandosi, aggiornandosi, rischiando pesanti provvedimenti disciplinari, producendo idee e prospettive nuove, erano, sistematicamente, perseguitati, localizzati, individuati e fulmineamente tolti di mezzo. Carriere bloccate, implicito suggerimento a rassegnare le dimissioni o scegliere di stare nell’ombra, rinunciando a pensare : ad esempio il conte Alfredo Bennicelli, ufficiale superiore e specialista dei corazzati, dopo frequentazione degli ambienti militari e industriali francesi durante la Grande Guerra e- ancora- il tenente di artiglieria Carlo Ederle che aveva scritto e pubblicato studi estremamente validi ( precorrendo i tempi) sulle Artiglierie Semoventi. Persino un progetto realizzato dall’Ansaldo e dimostratosi efficiente, valido e utilmente impiegato durante la prima guerra  mondiale fu “affrettatamente smobilitato” dopo i primi giorni del novembre 1918. Quando finalmente (1942) i semoventi furono disponibili in numero appena sufficiente , se non puramente dimostrativo, impiegati in battaglia mostrarono tutta la loro potenza e validità, riscuotendo – come detto – il timoroso rispetto del nemico ci si rese conto che purtroppo ne furono costruiti in tutto appena 162 esemplari e alcune batterie andarono perdute negli affondamenti delle navi che li trasportavano in Africa Settentrionale. Da rimarcare che, more solito, le autorità del settore specifico tentarono di ritardarne l’impiego, ricorrendo al tradizionale espediente delle modifiche. La piaga infetta dei tradimenti, protetti rigorosamente, gelosamente (!!!) dall’articolo 16 dell’infame trattato di pace imposto all’Italia e tuttora giuridicamente vincolante.
La vicenda del semovente da 75/18 e delle successive versioni e progetti, convalidano il giudizio fortemente negativo sullo Stato Maggiore del Regio Esercito, confermando che sarebbe stato possibile disporre di mezzi tecnici per nulla inferiori a quelli del nemico e dell’alleato. Le responsabilità di stagliano nette sul plumbeo sfondo dei profili di quanti ebbero l’ordine di preparare la Nazione al conflitto.
La  Storia con la sua lentezza esasperante è ancora lontanissima dal diradare le cupe, sinistre ombre della mistificazione.
Sicuramente non sarà questo sito a conseguire il risultato, ma certo non potrà essere accusato di contribuire ad offuscare ulteriormente la verità. Quanto precede ha un senso preciso e ineludibile:
la dimostrazione di quanto era disponibile e impiegabile, ma non utilizzato .
Un tassello in più nella disgraziata ricerca delle occasioni perdute.

COMMENTO

“… è indispensabile accettare l’idea  che durante un grande conflitto ogni decisione, pur rispondendo ad una pluralità di motivazioni secondarie, trae comunque la sua origine dai rapporti di forza militare e dalla valutazione del loro evoluire nel futuro a breve termine che le circostanze suggeriscono e consentono(Franco Bandini:  “1943: l’estate delle tre tavolette”.

Da questa affermazioni di Franco Bandini, scaturiscono delle verità assolute e determinanti.
In guerra sono i risultati delle battaglie e la capacità dei capi di sfruttare gli esiti  che manovrano, condizionano e accendono gli orientamenti, gli stati d’animo, le reazioni, i giudizi dei politici e delle popolazioni.
Le operazioni militari, quindi, non solo sono il termometro della situazione, ma ancor prima sono il propellente dell’intero apparato logistico,industriale  e prima di ogni altra considerazione, sono
Il motore   delle forze armate, nel senso di fornire energia morale, consapevolezza,efficienza ed efficacia, fiducia e impeto. Equivalgono alla cartina di tornasole della  credibilità dello Stato e dei suoi poteri. E così pure il contrario.
E’ quanto emerge dalla lettura di un lavoro di Franco Bandini, autore e ricercatore straordinario, scomparso anni fa (autore tra l’altro del noto “, “Tecnica della sconfitta” ,Longanesi & C Editore, Milano 1969).
Il libro  cui si fa riferimento, (“1943: l’estate delle tre tavolette) lo si deve, invece all’editore Gianni Iuculano, Pavia, 2005.
Il lavoro di Franco Bandini può essere considerato la <summa> di tutta una vita di ricercatore e giornalista dedicata all’analisi della partecipazione italiana agli eventi e alle conseguenze della seconda guerra mondiale e agli oscuri, torbidi retroscena, culminati poi nella resa  ignominiosa di settembre.
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La lettura di quelle pagine induce tra l’altro ( che è molto e non si può sintetizzare, ma solo definire straordinariamente istruttivo…)  a prendere atto dell’assoluta inadeguatezza dell’apparato statale, delle forze armate (quanto a concettualità, mentalità, organizzazione, integrazione, affidabilità, lucidità intellettuale) e dell’assenza totale, colpevole, di un apparato adeguato,  collaudato, costantemente verificato e potenziato di  controspionaggio.
Forse, anzi senza forse, la carenza più grave dell’intero sistema.
Le falle nella sicurezza interna, l’assenza di un controllo strettissimo di tutto e di tutti si tramutò nella minaccia più micidiale. Al punto che persino l’intelligence germanica dovette intervenire per neutralizzare, per quanto possibile, le reti di spie nemiche o asservite e finanziate dal nemico, da tempo annidate e attivamente operative nella penisola, anche sotto l’ala protettrice di ambienti della Corona, di circoli industriali e, purtroppo, anche dallo Stato Pontificio, come era già accaduto durante la Grande Guerra 1915-1918.
Ancora oggi, a oltre 65 anni dalla fine del conflitto, la parte più consistente di quel filone di storia oscura avvolto dalle fitte, impenetrabili nebbie e cortine fumogene  dell’omertà e della complicità, è sconosciuto e pesa gravemente sulla coscienza nazionale, contribuendo ad alimentare sospetti e a impedire l’indispensabile bagno di verità,  unica soluzione agli odii che tuttora impediscono la pulizia  dell’identità nazionale e ne compromettono la capacità di risollevarsi e scuotersi. (4-Fine)